Lumini sul mare e “sorprendenti” fuochi pirotecnici:
si concludevano così, alla fine dell’800, i tre giorni di festeggiamenti in onore di Santa Cristina (organizzati dalla specifica deputazione, in un periodo che talvolta variava rispetto alla data canonica del 23 – 25 luglio, ma comunque ricadente nella seconda metà di tale mese).
Le luminarie ad acetilene, breve parentesi tra il petrolio del passato e l’energia elettrica che stava per sopraggiungere, addobbavano il corso Roma, che allora era intitolato XX Settembre e non subiva soluzione di continuità rispetto alla contigua scogliera di tramontana: il treno aveva appena portato in città “uguaglianza e libertà”, ma la linea ferrata non raggiungeva ancora il porto e non c’era neppure il lungomare di tramontana.
In conseguenza, era possibile, benché non proprio agevole, assistere allo spettacolo dei lumini che, accesi e depositati sull’acqua, con condizioni meteo marine ottimali disegnavano uno scenario fiabesco.
La festa si svolgeva secondo canoni che si sono ripetuti negli anni futuri, e per lungo tempo, senza grandi modifiche: preannuncio di festa con lo scoppio del cannone civico e le note di allegri brani musicali eseguite dalle bande “municipale” e “popolare” per le vie cittadine e, nel pomeriggio, processione con il simulacro della Santa glorficato dal concorso delle confraternite di Santa Maria della Purità e di Santa Maria degli Angeli, oltre che, naturalmente, dei fedeli. La sera, luminarie e accensione di una fontaniera.
Il secondo giorno le bande diventavano tre e talvolta quattro, con l’aggiunta di quelle forestiere scelte tra le più rinomate, e fin dalle ore 9 suonavano “pezzi scelti in orchestra” in luoghi pubblici; nel pomeriggio, gara di lance a vela, corso di gala in carrozza e, “ad ora tarda”, sparo di fuochi pirotecnici.
Il terzo giorno, infine, ancora note musicali per le strade, dopo il suono dei “sacri bronzi” al sorgere del sole, poi la cuccagna a mare nel pomeriggio, “bande in orchestra” tra le luminarie e spettacolo pirotecnico.
Cappella |
La Festa nel 800
Con tale programma allestito dalla deputazione, “lo scoglio” manifestava in modo solenne devozione alla sua “Proteggitrice pietosa”, ma ovviamente la festa aveva anche un’altra interprete: la “devota cittadinanza” che seguiva processione, panegirico, vespri solenni, messa musicata eseguita dalla Filarmonica cittadina e da “scelti cantori forestieri”, e la sera animava il Corso. Gli ampi marciapiedi ospitavano le bancarelle: quelle di palloncini, bambole e giocattoli di legno; quelle di oggetti per la casa e di attrezzi per i mestieri, la cui disponibilità era stata attesa magari per mesi da massaie e artigiani che non avevano avuto occasione di acquistarli in qualche fiera dei centri dell’hinterland o in quella della Madonna del Canneto svoltasi nei primi giorni di luglio, antica, ma che la festa di Santa Cristina avrebbe poi definitivamente assorbito; e le bancarelle di noccioline, scapece e dolciumi.
Nei loro sacchi di iuta, le nuceddhe moddhi (arachidi) e toste (nocciole) dividevano lo spazio delle modeste assi di legno della bancarella con samienti (semi di zucca) e fave e ciciri (tostati anch’essi). Talvolta i apacitini di scapece affiancavano, come avviene tuttora, le noccioline, segno evidente che la bancarella era locale: solo i gallipolini avevano, ed hanno, il sapere necessario per dare vita a questa sempre più apprezzata espressione della gastronomia cittadina, che affonda le radici nella cucina araba. Si tratta di pesci, rigorosamente separati per pezzatura, dal piccolo latterino (minoscia) ai più grossi zerri (cupiddhi), fritti in olio d’oliva e stipati in tinozze di legno,alternati a strati di pangrattato annaffiato con aceto bianco, nel quale è stato preventivamente stemperato lo zafferano.
I buongustai non hanno dubbi: i sapori si mescolano e al termine della marinatura non si distinguono più i singoli ingredienti, ma il gusto, unico e originale, della scapece.
Infine, i dolciumi. Accanto alla cupeta (impasto di mandorle tostate avvolte nello zucchero caramellato, fatto raffreddare su di un piano di marmo e tagliato a listarelle), tra i tanti dolci tradizionali, nelle feste si ritrovavano, e ritrovano, soprattutto gli scajozzi: impasto di farina, mandorle e cacao tagliato a piccoli rombi e cotto al forno; una volta freddi, tali biscotti sono nnasparati, ossia ricoperti di glassa al cacao.
Presenza tradizionale nelle festa erano anche i venditori giunti da paesi più lontani rispetto all’hinterland, talvolta veri e propri imbonitori che sapevano di potere contare tanto sulla credulità dell’uditorio, quanto sulla distanza che, il mattino dopo, avrebbero messo tra loro e la città; proponevano prodotti miracolosi per la salute, decantavano caramelle e pastiglie balsamiche, esaltavano i doni delle riffe.
La Festa nel 900
I giornali dei primi anni del ‘900 segnalano alcune novità, pure nella sostanziale continuità rispetto alla strutturazione della festa quale era stata concepita fin dall’inizio.
Dallo “Spartaco” , ad esempio, s’apprende che tra le manifestazioni collaterali fu dato ampio spazio a quelle organizzate dalla società Sportiva Gallipolina, poiché furono inserite una “gara di foot-ball” tra una compagine locale ed una salentina, una corsa ciclistica articolata sul percorso Gallipoli-Galatone-Lequile-Lecce e ritorno passando da Galatina, ed una gara di nuoto tra il Lanternino e la scogliera denominata Sandulu, poi trasformata nella banchina su cui insiste attualmente la sede dell’Anmi.
Il “Goliardo”, invece, informa che l’edizione del 1939 della festa fece registrare una novità che il cronista mostra d’apprezzare moltissimo: lo spostamento della cassarmonica piattaforma circolare di legno che ospita i concerti bandistici, sopralevata rispetto al piano stradale e di norma coperta da una cupola con funzione acustica che fu installata “tra il caffè e l’azienda turistica”, ossia all’altezza dell’attuale Teatro Italia, lasciando così libero per il passeggio il marciapiede di fronte, dove era stata ubicata negli anni precedenti; e dove ritornò, e per molti lustri, negli anni successivi.
Infine, va ricordato che, nel contesto della festa “affollatissima e gaia”, era allestito anche un preludio di luna park, che in futuro si sarebbe arricchito sempre di nuovi e fantasiosi divertimenti: dalla piccola giostre con i cavalli infissi su una ruota di legno fatta girare da mani callose, ai seggiolini sostenuti dalle catene che il moto vorticoso dei primi motori elettrici faceva divaricare con perfetta regolarità intorno all’asse; esempre in costanza di tiri a segno che richiamavano giovani vogliosi di mettersi in mostra agli occhi di ragazze apparentemente distratte.
Gli interpreti
I giovani, in fondo, erano i primi attori della festa, che rappresentava una delle poche occasioni offerte a ragazze e spasimanti per incontrarsi magari a distanza, per scambiarsi un’occhiata e, se si era fortunati, per fare scivolare, in una mano lesta a nasconderlo, il biglietto che proponeva un appuntamento. È comprensibile che l’attesa per la ricorrenza fosse, perciò, molto grande: con settimane, a volte mesi d’anticipo, le donne cominciavano a preparare l’abito, le scarpe, il cappellino, la borsetta, i guanti che avrebbero indossa to per l’occasione;
mentre le figlie sognavano l’incontro con l’innamorato, le madri pregustavano le novità che avrebbero potuto adocchiare e sulle quali avrebbero potuto spettegolare.
E se il caldo imperversava ma la festa ricorre in un periodo che non disdegna di regalare a cittadini e ospiti folate di tramontana anche più forti di quanto la stagione non lasci presagire i salaci commenti si potevano sempre nascondere dietro i ventagli devozionali acquistati proprio alla festa: una bacchetta di legno sulla quale era innestato un cartoncino a guisa di bandiera che riproduceva un’immagine della Santa.
Anche la partecipazione dei “forestieri” era molto nutrita, alimentata da coloro che raggiungevano Gallipoli per appuntamenti mirati, dalla funzione religiosa alla festa serale, e dai bagnanti; i quali di norma a fine giugno si trasferivano, le carrozze cariche di provviste, dai centri vicini nelle case affittate per la stagione estiva e quindi avevano la possibilità d’immergersi completamente in tutti gli appuntamenti, sacri e profani, della festività. Tra gli ospiti che, nel tempo, hanno visitato la città propri o nel periodo della festa, merita una citazione Gabriele D’Annunzio.
Il poeta si trovò a Gallipoli il 28 luglio 1895 e notò, e annotò, “il gran frastuono di banda musicale, di gran cassa, di campanelle come in una fiera” che si svolgeva in prossimità del lungo sedile di muratura che per decenni è stato denominato passeggio; prima che il dilatarsi dell’urbanizzazione spostasse verso gli Alba-Cani il baricentro della città.
La Steddha
Vari episodi suggeriscono che in passato i gallipolini hanno coltivato un rapporto particolare con la divinità, che li ha portati ad umanizzarla. Ne sono riprova: nelle rispettive ricorrenze di Sant’Agata e San Sebastiano, in cui i simulacri argentei sono porta ti entrambi in processione, l’ordine inverso di sfilata rispetto al festeggiato, quasi che il titolare della festa voglia compiere un gesto di premura tutta umana nei confronti del compatrono della città; la vicenda della statua lignea del Malladrone esposta nella chiesa di San Francesco d’Assisi, che per la fede popolare subisce il deterioramento sistematico della stoffa dei vestiti, a differenza di quanto avviene al buon ladrone Disma, e ciò perché la colpa reclama l’evidenza della soprannaturale esecrazione; la punizione divina in caso di mancata santificazione della festa nella ricorrenza dei Santi, e di Santa Cristina in particolare, la cosiddetta steddha.
È difficile comprendere il perché della denominazione, che potrebbe semplicemente rifarsi ad un’entità superiore, lontana, brillante e indecifrabile come una stella; si vuole che la credenza sia collegata alla vicenda di un ragazzo che non rinunciò ad un bagno in mare, in un giorno di festa religiosa che avrebbe invece richiesto una penitenziale rinuncia ai piaceri quotidiani, e morì affogato.
Si dice, quindi, che i Santi portane la steddha, e la pietà popolare non coglie la contraddizione d’attribuire sentimenti di vendetta per la trasgressione, proprio a coloroche si sono distinti per la pratica eroica della virtù cristiana dell’amore, che può esserefonte solo di perdono.
Fatti contingenti, per altro, hanno alimentato la credenza, atteso che nel corso del tempo altre persone sono affogate nel giorno di Santa Cristina; e ciò si spiega con l’arrivo in città, richiamati proprio dalla festa, di commercianti o “forestieri” poco pratici di nuoto. L’ultimo episodio di cui si ha memoria risale ai primi Anni ’60, quando il luna park era allestito sul vasto piazzale Giudecca e un giostraio affogò a causa di una congestione, per avere preso il bagno dopo avere pranzato.
Il miracolo
Santa Cristina, insieme con Agata e Sebastiano e al pari di Santi quali Giovanni Crisostomo, Pancrazio, Fausto, Marina ed altri, fa parte dei protettori della comunità cittadina. L’accentuazione di un culto che la presenza della piccola cappella dedicata alla Martire di Bolsena segnala essere antico e radicato, va ricondotta ad un episodio avvenuto nel 1867, quando già da oltre un anno la confraternita di Santa Maria della Purità, accogliendo la sollecitazione del suo padre rettore don Serafino consiglio, aveva introdotto nel proprio tempio una solenne celebrazione della ricorrenza.
Nel febbraio del 1867, in città, come nel resto della provincia, scoppiò il colera che nei mesi successivi avrebbe provocato molti lutti. Una mattina di luglio si diffuseuna di quelle voci di cui è impossibile risalire alla fonte: sosteneva che bi sognava invocare l’aiuto di Santa Cristina. La popolazione si rifugiò nella fede e nella chiesa della Purità fu organizzato un triduo di preghiera alla Santa: dopo il primo giorno, il 20 luglio 1867, la diffusione dell’infezione, miracolosamente, cessò.
La confraternita si dotò di una statua, ma beghe sorte tra confratelli suggerirono, l’anno successivo, di sostituirla. Una deputazione commissionò l’opera al cartapestaio leccese Achille De Lucrezi (1827-1913), che in precedenza aveva eseguito altri lavori per la città con generale soddisfazione. Giunto il simulacro, “di felicissima interpretazione”, la deputazione lo consegnò alla confraternita perché lo custodisse nella chiesa della Purità e dal 23 luglio 1868, primo anniversario della liberazione della città dal colera, iniziarono i festeggiamenti solenni, curati dalla confraternita sul versante religioso, e dalla deputazione, nel tempo sempre più supportata dal Comune, su quello civile.
Statua
L’opera di Achille De Lucrezi, la cui bottega era specializzata in arte sacra, ci propone una figura dal volto dolcissimo, biondi i capelli, lo sguardo rivolto al cielo, legata ad un tronco d’albero, trafitta da due frecce, una al fianco ed una al cuore, e glorificata da un angelo che sorregge nella destra una corona di rose e nella sinistra un ramo fiorito (che nell’iconografia é di norma una palma, simbolo del martirio). Ai piedi della Santa vi é un cagnolino. L’arte del De Lucrezi si ritrova tutta nel volto soave e nei morbidi panneggi della veste rossa, del mantello blu ripiegato sulla vita legato da un cordone dorato e del fazzoletto verde che le cinge il collo. Statua molto bella, in verità, cui l’ultimo restauro, eseguito nel 1999 da Valerio Giorgino, ha ridato le cromie originali.
Il precedente intervento di restauro si era reso necessario per una disavventura capitata durante la processione del 1962: la statua, installata su di un autocarro, in prossimità di piazza Tellini urtò contro un cavo teso per controventare le luminarie e siruppe in due tronconi all’altezza della vita. La processione continuò con un altro simulacro, messo a disposizione da un privato che la venerava nella propria abitazione situata in prossimità del luogo dell ’incidente. Successivamente , il restauro, finanziato dall’imprenditore Otello Torsello, fu eseguito da Uccio Scarpina, eclettica figura d’artista locale.
Merita un breve, ulteriore cenno la presenza del cagnolino, che nell’iconografia della Santa divide la presenza con un drago. Tale ultimo ricorda il miracolo, avvenuto durante la persecuzione che si concluse con il suo martiri o, della statua di Apollo, che, in presenza della giovinetta cui si voleva imporre un sacrificio in onore della divinità, si frantumò lasciando fuoriuscire un drago. Il cagnolino, invece, la cui fedeltà è celebrata per antonomasia, rappresenta la costanza di fede della Santa.
In proposito è fiorita una leggenda che appare contraddittoria proprio rispetto al concetto di fedeltà che deve simboleggiare: si vuole che, scomparso durante l’epidemia di colera, il piccolo animale sia poi ricomparso al termine della stessa. È scaturita da ciò la credenza che la scomparsa del cagnolino avrebbe il presagio di sventura per la comunità cittadina; ma ciò può anche leggersi in chiave positiva, nel senso che finché il cagnolino sarà accanto alla Santa, e nulla lascia presagire che ciò non debba perpetuarsi, la città sarà protetta dalla miracolosa presenza della Santa di Bolsena.
Ritornando alla statua del De Lucrezi e all’iconografia che il cartapestaio scelse per modellare la Santa, va detto che s’ispirò ad una tela, custodita nella chiesa del Canneto, la cui immagine si rifaceva al racconto dell’antico “Martirologi o Romano” revisionato nel XVI secolo dal religioso, e poi cardinale, Cesare Baronio (1538-1607).
Il martirio
Cristina era nata probabilmente a Roma nel 270 d.C. e, ventenne, aveva seguito a Vulsinium il padre Urbano, che era stato inviato dall’imperatore Diocleziano per reprimere la diffusione del cristianesimo in quella provincia. Gli agiografi non indicano il suo nome, ma è certo che assunse quello ispirato a Cristo nel momento del battesimo segreto che seguì la sua conversione. Urbano, informato da un’ancella, non poteva consentire che fosse sconfessato proprio nella sua famiglia il motivo per cui era stato nominato prefetto e, di fronte al rifiuto della figlia di sacrificare al dio Apollo, la fece rinchiudere nelle segrete di una torre.
Il carcere, le minacce e le flagellazioni non piegarono la fede di Cristina in Cristo e Urbano ordinò che fosse sottoposta ad una serie di torture, che l’aiuto divino le consentì di superare restandone indenne: una ruota ricoperta di chiodi che avrebbe dovuto straziarne il corpo, si sfasciò; il fuoco che avrebbe dovuto divorarla, carbonizzò i suoi aguzzini; un masso che avrebbe dovuto trascinarla a fondo nelle acque del lago, si trasformò in un guscio galleggiante che la riportò a riva.
Tale prodigio fu l’ultimo ad essere nottetempo rimuginato dal padre snaturato: il giorno dopo fu trovato morto nel letto e Roma destinò al suo incarico Dione, che ricominciò le torture, ma dovette assistere a nuovi prodigi: Cristina rimase indenne dalle ustioni dell’olio bollente di una caldaia nella quale fu immersa e che subito dopo s’infranse; ed una statua di Apollo, di fronte alla quale Dione avrebbe voluto che la giovane sacrificasse per chiudere la vicenda, come so pra detto si frantumò ed una scheggia colpì il prefetto, uccidendolo.
Il suo sostituto, Giuliano, ordinò che Cristina fosse bruciata in una fornace, ma le fiamme, tenute lontane dal movimento delle ali di alcuni angeli, neppure la lambirono; e successivamente aspidi e vipere non si avventano contro di lei, ma contro il carnefice, che morì avvelenato dai loro morsi e ritornò a vivere solo per intercessione di Cristina; e quando le fu tagliata la lingua per non sentirla più oltre lodare il Signore, la sua voce continuò a rimproverare Giuliano ed esaltare Cristo. Furono le frecce, infine, a provocarne la morte, il 24 luglio 290.
Cappella
Il leggendario racconto del martirio contribuì alla diffusione della devozione per Santa Cristina sia in Italia, come testimonia anche il fatto che numerosi Comuni, dal Piemonte alla Sicilia, ne recano il nome, sia in Europa e nella chiesa d’Oriente, dove fu venerata come taumaturga.
A Gallipoli le fu dedicata una cappella situata all’esterno delle mura urbiche, che si vuole edificata nel XIII-XIV secolo. È costituita da un piccolo ambiente, con copertura a tetto, ma facciata piana sovrastata, al centro, da una croce ed è movimentata soltanto dalla porta ornata da un semplice frontone, ovviamente d’epoca successiva.
La cappella, d’altra parte, è stata più volte restaurata, essendo stata per secoli esposta alle mareggiate, prima che la creazione dei moli del seno del Canneto (mare piccinnu) la proteggesse e la isolasse. Risulta essere stata risanata già nel 1576, essendo stata trovata priva di copertura, come si evince dalla visita pastorale di monsignor Cibo; ma la stessa relazione del presule conferma la devozione popolare, dando atto che i fedeli avevano già raccolto le somme necessarie a rifare il tetto e ripristinare la campanella sospesa alla piccola vela situata sulla parete destra.
Il degrado, però, si ripresentò e non è dato di sapere quante volte la cappella sia stata abbandonata, sconsacrata, restaurata e restituita al culto. Si conosce solo che alcune successive visite pastorali non fanno cenno alla cappella, trasformata in deposito di reti e attrezzi da pesca. Il suo radicale recupero sarebbe coinciso con l’anzidetto ritorno alla devozione per la Vergine di Bolsena promossa da don Serafino Consiglionel 1866.
Nel 1882 la municipalità, che ne aveva acquisita la proprietà, l’affidò in concessione alla confraternita di Santa Maria degli Angeli, che notoriamente riuniva i pescatori, interessata a coltivare il culto nella cappella che vigilava sull’approdo delle barche da pesca. L’affidamento terminò nel 1905, quando la vicina chiesa di Santa Maria del Canneto fu eretta in parrocchia.
L’ultimo, più radicale restauro della cappella risale al 1960. Attualmente, la piccola aula presenta al suo interno due statue della Santa: una più grande, in una nicchia sovrastante l’altare, ed una più piccola, aggraziata e pregevole, collocata in una sorta di nicchia-tronetto che è un trionfo dorato di colonnine, cornice modanature.
Immagini Sacre
In precedenza la cappella aveva custodito una tela che, evidentemente per essere salvaguardata dal degrado della struttura, fu collocata nella vicina chiesa del Canneto. Si tratta di un’immagine del Martirio che Elio Pindinelli argomenta possa essere attribuita a Nicola Malinconico (1663-1721).
Ispirata all’anzidetto Martirologio di Cesare Baronio, propone l’immagine della Vergine bionda trafitta dalle frecce, di arcerie di soldati che tengono a di stanza l’ancella fedele alla Santa, di Giuliano che reca in mano una statuetta di Apollo, del fuoco e del drago, che rappresentano le vittorie della Santa sulle torture; e c’è anche, quasi confusa tra le figure, la testolina di un cane.
Una secondatela avente per soggetto la Santa, ultima, a quel che si conosce, tra quelle custodite in luogo sacro, si trova nella sagrestia della chiesa della Madonna degli Angeli. La confraternita la commissionò, nel 1886, al pittore gallipolino Giuseppe Forcignanò (1862-1919) allo scopo di collocarla nella cappella; nel 1905, lasciandone la gestione, trasferì il quadro nei locali annessi al suo tempio. Forcignanò realizzò la Santa a mezzo busto, conformemente all’iconografia che la vuole legata all’albero e trafitta dalla frecce, ma lo sguardo rivolto al cielo conferisce un sentimento d’estasi all’intero volto, che calamita l’attenzione dell’osservatore e fa passare tutto il resto in secondo piano. Tra le immagini da ricordare, vi sono: quella realizzata da Luigi Consiglio, litografata nel 1867; un bozzetto di Andrea Stefanelli, che al pari delle altre immagini si riproduce di seguito, in questo caso per la prima volta a colori; una cromolitografia su disegno di Agesilao Flora (1863-1952)