Ciùcci» (asini) e «uttàri» (costruttori di botti)
erano chiamati gli abitanti di Gallipoli. Il nomignolo «ciùcci» non ha alcuna attinenza con il somaro e con tutto ciò che esso significa. Si riferisce invece alla pazienza dei Gallipolini e alla loro resistenza al lavoro. «Ciùcci» quindi nel senso di gente abituata a sopportare grandi fatiche, capace di portare avanti un lavoro massacrante per l’intera giornata.
Il soprannome non è certo nato a caso.
Gallipoli, dal Cinquecento sino ai primi anni di questo secolo, ebbe un ruolo determinante nell’ambito dell’economia del regno. Essendo il suo uno dei porti più attrezzati in cui si imbarcavano e si esportavano grano, vino e soprattutto olio. L’olio di Gallipoli infatti veniva considerato tra i migliori d’Europa. Non solo per il consumo alimentare, ma anche per usi industriali come l’illuminazione, per le fabbriche di sapone e per i lanifici. Ed il porto di Gallipoli, offrendo molta sicurezza agli attracchi, fu, dopo quello di Napoli, lo scalo commerciale dove si sviluppò un abbondante e ricco traffico marittimo. Un movimento commerciale quindi di consistenti dimensioni. Che garantiva un certo benessere a un vasto strato della popolazione, ai facchini soprattutto, impegnati quotidianamente nelle operazioni di carico e scarico alla banchina.
L’attività portuale divenne perciò una fonte di reddito per molti gallipolini, i quali, pur di fronte all’enorme fatica che comportava il facchinaggio, non si lasciavano sfuggire un’occasione di lavoro. Da qui «ciùcci» o «ciùcci de fatica», quasi animali da soma, per dire lavoratori instancabili. Anche il nomignolo «uttari» è in parte legato all’intenso traffico commerciale dell’olio e del vino. Questi prodotti infatti venivano trasportati nelle botti di legno; per cui si rese necessario lo sviluppo della loro fabbricazione artigianale.
Nelle numerose botteghe presenti in città si costruivano migliaia di botti
con un particolare legno proveniente dalla Calabria: i caratteristici barilotti cerchiati con fasce di ferro dove si usava conservare la «scapece» (pesce in salamoia e zafferano), tipica specialità della gastronomia locale. Ma i bottai gallipolini (che dettero vita a una delle più antiche società di mutuo soccorso) seppero fare di più: saputo che l’olio imbarcato nel loro porto, una volta arrivato nei paesi freddi si solidificava ed era difficile scioglierlo per venderlo a litri, inventarono un tipo di botte costruita con fasciame leggero e dal costo molto basso. Una botte a perdere, insomma, sicchè una volta giunta a destinazione non comportava soverchio spreco segarla e vendere l’olio solidificato a chili anzichè a litri.
Ciò sta a significare che i bottai gallipolini avevano raggiunto nel loro lavoro una grande specializzazione, tanto da non avere concorrenti sul mercato. Le loro botti risultavano perfette, e non si verificava mai la perdita del liquido attraverso gli interstizi tra una doga e l’altra. Ma i bottai avevano il loro segreto: tra le tavole leggermente incurvate inserivano una cordicella di fibra naturale, la «zùca», che impediva il formarsi di pericolose fessure e dava al recipiente una tenuta stagna: la stessa tecnica del calafataggio nelle imbarcazioni.
Alcuni soprannomi Individuali:
- Balanzé (fare l’altalena)
- Battisole (calzolaio)
- Bazzaca (gioco della lippa)
- Beddhusino (corruzione di «pretrusinu», prezzemolo)
- Cacaove (caca uova)
- Cacatu (persona sporca)
- Caddina (gallina)
- Caggiana (femmina del gabbiano)
- Camisa (camicia)
- Capi-te-cazzu (glande del pene)
- Cernijenu (metereologo)
- Cia. (ciglia)
- Cucùzza (zucca)
- CuIi-te-comma (culo di gomma)
- Essiballa (esci e balla)
- Mangia-casu (mangiatore di formaggio)
- Mangiafiche (mangiatore di fichi)
- Manilonga (lungo di mano)
- Mbratta (imbianchino, rozzo)
- Muccùsu (moccioso)
- Ntreccene (parrucchiere)
- Palùmbu (colombo)
- Pappaciciri (mangia ceci)
- Paùsa (bavosa)
- Pisciapariti (faceva la pipi sui muri, tipico dei bambini)
- Primera (da primiera, nel gioco della scopa)
- Ricchia-te-branda (aveva orecchi grossi… come brande)
- Scanùsu (sporco), Strafùtti (che se ne infischia e che sfotte)
- Tréja (triglia)
Fonte: Quotidiano di Lecce